martedì 6 novembre 2018

Albero

Mi hanno appeso ad un muro. Attaccato ad un chiodo. Riempio una piccola parete.  La cosa mi riempie d'orgoglio,  in fondo é per questo che sono stato creato.
Un  giorno una mano intinse un pennello in una pasta colorata e prese a massaggiare la mia superficie con tocchi rapidi e precisi. Ed é cosi che venni al mondo.
Quella mano decise che avrei portato benessere a chi mi avrebbe guardato e mi battezzò con un dolcissimo nome.
Poi riposai per tanto tempo su una bancarella. Sentivo la gente passare, parlare. Ridere. Ma nessuno gettò uno sguardo su di me. Né io su di loro. Sapevo che il momento sarebbe giunto e che chi mi avesse guardato bene, non avrebbe potuto più distogliere gli occhi da me. Aspettai fiducioso. Riposai.
Un pomeriggio sentii delle voci. Una bassa e profonda, l'altra chiara e argentina. Pacata. La voce più giovane indugiò intorno a me. Giacevo appoggiato. Nascosto da altri come me. Però
uno strano rimescolio mi diceva che il tempo era compiuto e che finalmente avrei potuto esercitare il mio potere. Mi sentii sollevare e sentii la voce affermare assertiva: questo qui! Lo prendo!. Mi ritrovai avvolto in una velina sottile sotto il braccio di una  fanciulla. I suoi passi risuonavano sull'acciottolato bagnato. La sentii parlare. Parlava di me. Forse con me. Compiaciuta.
Voleva darmi a qualcuno. Ci rimasi male. Mi ero abituato alla sua voce. Mi piaceva stare nell'incavo del suo braccio.
Avevo trovato qualcuno e già lo perdevo? Confesso che persi un po’ di fiducia. Che sarà di me? Chiesi a me stesso.
...
Un giorno la voce mi sollevò per aria e fissò gli occhi dritti su di me. Mi mirò e mi rimirò e dopo un po’ mi rivolse la parola, o forse fui io a capire male. Mi disse: sei pronto per svolgere la tua missione?
Poi mi offrì ad un gentile signore, che mi accolse tra le sue braccia. Un po’ impacciato. "É per te -disse-papà!"
E lui mi portò con sé nella sua terra lontana, al caldo e al sole. All'ombra di una cupola  imponente che diventa piccina.
E mi appese nella mia parete, che riempio per intero.
Occupo una posizione invidiabile e chi entra non può non vedermi. In fondo mi è andata di lusso.
Ed un giorno entrò lei. La vidi sfilarsi la sua giacca rossa e posarla sulla sedia accanto la sua. Non mi aveva ancora visto. Continuava a parlare. Parlava, parlava, ma quanto parlava!
Forse per nascondere il nervosismo che le faceva torcere le dita della mano.
Decisi che aveva bisogno di me. E allora mi sforzai di attirare la sua attenzione. Catturai un raggio di luce proveniente dalla piantana e lo proiettai su di me. I miei colori brillarono e mandarono uno scintillio difficile da evitare.
Lei si girò lentamente verso destra e alzò gli occhi verso di me.
Eccomi! gridai con tutto il mio bagliore. Guardami, le dissi, sono
qui per te.
Lentamente sollevò gli occhi e li posò su di me. Poi tornò a guardare l'uomo. Ma la vidi, la sentii. Con tutta se stessa desiderava guardarmi. Si controllava.
No , no, brillai. Guardami. Sono qui per te. Ed ella finalmente mi udì.
Tornò a guardarmi e non mi staccò gli occhi di dosso neanche quando lui le rivolse la parola. E finalmente , dopo un attimo, le sue labbra si curvarono in un sorriso.
Mi riconobbe. Lo so. E provai una
gioia immensa. Le sue labbra ormai irrimediabilmente disposte a sorridere. E seppi per certo che avevo adempiuto alla mia missione. Lui e lei avevano bisogno di me e ogni volta che mi avessero guardato si sarebbero sentiti felici.
Mi chiamo o non mi chiamo albero della gioia?

Contrariamente al mio solito, per questo acquerello ho dovuto procedere con calma. L'ho realizzato infatti in due riprese da un originale di Kazuo Oga. Per niente facile...!
Quando vivevo a Bruxelles, l’inverno durava tanto. Incominciava presto e finiva tardi. Cresciuta a latte e sole di Sicilia, faticavo un po' ad accettare il perenne grigiore del cielo bruxellese : una cappa pesante che gravava sulla testa. Non a caso cito, parafrasandolo, Baudelaire. È in questa città, infatti, che ha scritto Spleen.
I rami spogli degli alberi mi mettevano addosso un’infinita tristezza. Quasi scheletri umani che tendevano le braccia verso un cielo indifferente ed impassibile.
Soprattutto i toni monocromatici scombussolavano il mio sistema nervoso. La neve stessa mi soffocava (oddio per mezza giornata io, siciliana che la neve la vedeva in cartolina, mi lasciavo andare all’entusiasmo infantile che mi faceva esclamare: la neveeee la neveeeee). Per mezza giornata, appunto, poi mi sentivo soffocare. Rivolevo i colori.
Ma se l’inverno meteorologico e dell’anima duravano a lungo, è pur vero che ,seppur brevi, assistevi a spettacolari cambi di stagione. La tanto anelata primavera arrivava lentamente. Ti accarezzava solleticandoti impercettibilmente con le prime gemme. All’inizio non te ne accorgevi. Ma poi l’occhio catturava una spruzzata di verde qua e là. Una gemma, un bocciolo. E d’un tratto esplodeva in una miriade di colori. I fiori profumavano l’aria e arricchivano il paesaggio decorandolo. 
Uno splendore.
Ma la stagione seppur breve che amavo di più era l’autunno. Un giorno andammo ai laghetti di Woluwe. I toni del rosso, del giallo e dell’arancio tingevano gli alti alberi che si specchiavano nell’acqua.
Una palette di colori degna di un grande pittore acquerellista. Quel giorno ricordo vedemmo uno scoiattolo rosso. Di quelli col ciuffetto sul capo e la coda grandissima. Rimasimo in silenzio, rapiti dalla magia del momento, che durò fino a quando lo scoiattolo con un balzo non scomparve dietro un ramo frondoso.
Ma ciò che ricordo con immenso piacere fu quella volta sotto casa , al parco del Cinquantenario. Avevamo appena attraversato l’arco e il prato ci accolse con sfumature di toni autunnali. Due file alternate di castagni ed ippocastani delimitavano i vialetti laterali e , sebbene gli alberi avessero ancora tante foglie sui rami, per terra era un tappeto folto di foglie arancioni e gialle.
I bambini sollevarono gli occhi verso di me, li spalancarono in una muta richiesta. Io abbassai il mento per dire si ed un attimo dopo li vidi sfrecciare a folle velocità verso quell’invitante tappeto dorato.
Poi si buttarono per terra e sollevarono a piene bracciate, strati e strati colorati.
Porterò sempre nel cuore il ricordo di quei colori  meravigliosi accompagnati dal sottofondo delle risate felici dei miei bambini.


Valle dei Templi


La mia città